7 agosto 2012

«Nel dialogo con l’Islam, ripartiamo dal Concilio»


IL FILOSOFO KHALED FOUAD ALLAM
Il 50° anniversario del Vaticano II è anche «l’occasione per rilanciare le relazioni interreligiose», evidenzia uno dei maggiori esperti di rapporti tra cristiani e musulmani, Khaled Fouad Allam.
GIACOMO GALEAZZI
CITTÀ DEL VATICANO

Professore, il Concilio è stata una scuola di ecumenismo?

«Il Vaticano II aveva stabilito le basi anche di un dialogo con il mondo mussulmano. Certo negli anni 60 il periodo era più o meno euforico perché gran parte del mondo mussulmano aveva iniziato la sua fase di decolonizzazione, di liberazione e dunque alla liberazione politica doveva anche ovviamente seguire una liberazione delle incomprensioni fra il mondo cristiano e quello mussulmano. C'è tutta una generazione di studiosi dell'Islam e di mussulmani che hanno contribuito all'elaborazione di questa maggiore conoscenza dell'Islam, in una doppia direzione sia in quella del mondo cristiano che verso quello mussulmano, in un'epoca in cui il tasso di analfabetismo nei paesi mussulmani era estremamente alto. Potrei citare l'islamogo Muhammed Arkoun, scomparso due anni fa, di origine algerina; l'islamologo ultraottantenne Muhammed Talbi che un paio di anni fa aveva ricevuto il premio Agnelli».

«Noi abbiamo il dovere di contribuire all'elaborazione per ciò che è possibile di una memoria condivisa, ma per il momento, ma come più volte ho sottolineato, continuano a mantenere quasi intatto una specie di divorzio fra storia e memoria. L'Islam è storia per gli orientalisti e i colti, ma non è memoria condivisa, rimane distante nonostante la vicina delle distanza geografiche. Amo ripetere che Palermo è distante mezz'ora di aereo da Tunisi, Ma per li momento non ci siamo. Attenzione: la cosa è reciproca. Il mondo mussulmano deve essere anche capace di uscire da questa visione dell'Occidente come origine di tutti i suoi mali e deve fare un lavoro in profondità. Deve essere capace di recuperare cose che fanno parte anche della sua memoria, memoria culturale, sulla quale comunque l'Islam in quanto civiltà ha rielaborato dei dati; non si può negare l'apporto greco-romano, di quello cristiano, ebraico e fino nell'Islam in Asia con le diverse connessioni fra l'Islam stesso e il buddismo. Un grande islamologo giapponese Toshihiko Izutsu fu il primo più di 50 anni fa a ripercorrere queste connessioni. Ma anche li non ci siamo nell'Islam. Torna in mente l'immagine catastrofica della distruzione dei Buddha in Afghanistan».

Lo scontro di civiltà è inevitabile?

«Nei periodo di crisi come quella che viviamo attualmente che credo non sia soltanto una crisi esclusivamente economica ma che sia una crisi in realtà di civiltà, vale a dire di come si fa società e di come funzioneranno società nei prossimi trent'anni, il rischio peggiore dell'incomunicabilità fra cristiano e mussulmani è quello di trovare in uno o nell'altro un capro espiatorio. I recenti attentati contro i cristiani in Egitto sono dei cattivi segnali, l'attentato di Tolouse perpetrato da franco-algerino membro di al Qaeda, uccidendo un rabbino e giovani ragazzi di una scuola ebraica più alcuni soldati francesi di origine magrebina in una fase come questa rischia comunque di aumentare la paura e lo stereotipo della percezione dell'altro. Lo stereotipo quando diventa ingovernabile può portare la catastrofe, viene in mente ciò che è successo non lontano da Trieste la guerra dell'ex Yugoslavia. Il rischio è sempre il passaggio dalla colpevolezza individuale a quella collettiva. Le guerre nascono proprio su questa base».

Esiste un Islam moderato?

«Quello che risalta nel mondo mussulmano è l'impoverimento culturale delle nuove generazioni anche per quelli che appartengono a partiti religiosi. Abbiamo anche dimenticato il primo rapporto dell'UNDP (organismo delle Nazione Unite) pubblicato nel 2001 sulla democrazia del mondo arabo, dove i esperti di origine arabe e non, sottolineavano la regressione di quel mondo sul piano sociale e culturale. Nel 2001 si traduceva in tutto il mondo arabo meno che nella Corea del Nord. Abbiamo bisogno di rifondare una specie di patto intellettuale, questo vale a dire la necessità di produrre edizioni critiche, lasciare libero corso alla libertà di espressione. All'alba di questa primavera araba mi pare evidente sottolineare che una democrazia senza libertà di espressione è esattamente come un vaso di fiori senz'acqua, poco a poco morirà. Anche lì il ruolo dell'intellettuale è importante. Ma lì un differenza con l'occidente, poiché qui ritrovo gli intellettuali sempre più dimissionari in ogni campo, quando torno nel mondo araba l'aria che si respira è diversa; l'intellettuale ha la consapevolezza di essere compartecipe del destino non soltanto della sua propria storia ma anche della sua nazione, mentre purtroppo, e mi rammarico di questo, trovo spesso gli intellettuali in occidente, passivi, disincantati».

Quanto incide la globalizzazione?

«La globalizzazione stessa nonostante tutto ci obbligherà a una conoscenza reciproca, perché la globalizzazione implicherà il fatto di vivere insieme e dunque di cercare di comunicare. Io insegno anche a degli studenti americani alla Stanford e ogni anno chiedo loro le loro origini: nel 90% dei casi sono nati tutti da matrimoni misti, chi ha la madre di origine iraniana e il papa di origine irlandese, chi la mamma italiana e il padre di origine latino-americana, ecc. Questo non è soltanto una questione di matrimoni misti, ma implica comunque una ricerca e un riformulazioni delle origine e una conoscenza. La complessità del nostro vivere oggi è anche questo, ma non ne abbiamo ancora la consapevolezza, ancora».


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