24 giugno 2011

Punto di fuga. A Roma una mostra fotografica sui richiedenti asilo


Roma - Che città è quella in cui è costretto a vivere chi fugge dal proprio Paese? Con quali occhi un rifugiato vede la città che lo ospita e che, allo stesso tempo, gli è estranea, spesso ostile? Sono questi gli interrogativi che hanno dato vita alla mostra fotografica "Punto di fuga. Roma vista dalla prospettiva di chi chiede asilo", inaugurata il 18 giugno dall'associazione "Liberi Nantes" (www.liberinantes.org) e realizzata in vista delle celebrazioni per la Giornata mondiale del rifugiato (20 giugno). Un'occasione per conoscere il punto di vista dei rifugiati, ma anche di guardare con occhi nuovi la nostra città, sempre più "chiamata a migliorare la propria capacità di accoglienza e di ascolto interculturale".

"Non è la luce che manca al nostro sguardo, è il nostro sguardo che manca di luce. Le foto sono come i fiori: ognuna ha una propria bellezza, si apre e si rivela in un modo e con un ritmo proprio. Più comprendiamo le cose più il nostro universo si allarga". È questa la didascalia che accompagna una delle foto in mostra, e realizzata da una ragazza africana di 22 anni. Lo sguardo di un ambulante al mercato, un gruppo di suore che attraversa compatto la strada, l'interno affollato di una gelateria, la propria ombra sull'asfalto, un viaggiatore addormentato nella metropolitana, la fermata dell'autobus, il Colosseo. Sono alcune delle immagini che le ragazze-fotografe hanno voluto immortalare della loro nuova città. È in questo modo che hanno voluto raccontare loro stesse, il loro rapporto con Roma, fatto di quotidianità, come l'attesa dell'autobus o i viaggi in metropolitana, ma anche di straordinarietà e stupore. Uno sguardo in bilico tra il rifiuto e la curiosità, tra la necessità e la scoperta. "È una città diversa quella che vede un migrante forzato - si legge in uno dei pannelli che illustrano le fotografie -. Un itinerario complesso tra avvocati, questura, centri di accoglienza, ospedali, mense. Le strade e i vicoli delle nostre città diventano una mappa dei bisogni e delle emergenze". Un luogo estraneo e sconosciuto, eppure condiviso.
La mostra è frutto di un laboratorio fotografico promosso da "Liberi Nantes", associazione sportiva dilettantistica che riunisce ragazzi rifugiati, patrocinato e finanziato dalla Provincia di Roma, che ha coinvolto alcune delle ospiti della "Casa di Giorgia" - Centro Astalli, luogo di accoglienza per donne rifugiate. Il progetto è stato realizzato grazie al supporto tecnico e artistico di "Shoot 4 Change", un network internazionale non profit di fotografi professionisti e amatoriali, che realizza reportage su eventi con finalità sociali.
"Il laboratorio è durato circa un mese - racconta Nicoletta Di Tanno, una delle fotografe del network - nel corso del quale le ragazze ci hanno portati in giro per Roma, in luoghi da loro scelti perché conosciuti, familiari, o al contrario perché sconosciuti. Per molte di loro è stato un modo per aprirsi, dato che non escono volentieri dal Centro e non sono sempre disposte a parlare della loro condizione, di quello che hanno passato". Il linguaggio diretto della fotografia ha permesso a queste donne di esprimersi "superando ogni barriera, da quella linguistica a quella sociale".
"Volevamo che le ragazze avessero la possibilità di darci una loro visione del mondo, in particolare della città che le ospita", dice Marisa Bini, una delle operatrici della "Casa di Giorgia" - Centro Astalli. Il progetto rientra nel quadro delle attività realizzate dal Centro, le quali mirano a far conoscere la città alle donne che sono state costrette a raggiungere il nostro Paese, così da "sentirsi più sicure, più a proprio agio", meno "ospiti". "Per questo - continua Bini - tendiamo a portare all'esterno del Centro tutte le attività, fuori dai circuiti dell'assistenza e lontano dalla rete dei connazionali. In questo modo le aiutiamo a ricomporre una quotidianità in cui emergano le singole personalità". Attualmente la "Casa di Giorgia" ospita 31 donne e 2 nuclei mono-familiari, provenienti in prevalenza dall'Africa. Dopo un anno le donne devono lasciare il Centro, trovare una casa, un lavoro, e iniziare una vita autonoma verso "la difficile strada dell'integrazione". (M. Fallani – SIR ITALIA)

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